mercoledì 16 ottobre 2013

Le Interviste Indiescutibili: Umberto Palazzo




Umberto Palazzo è un nome di primo piano nel panorama indie-rock italiano. Tra mille progetti paralleli, è finalmente tornato a pubblicare un lavoro con la sua creatura prediletta: il Santo Niente.
"Mare Tranquillitatis" è un grandissimo lavoro, di non facile impatto, ma ragionato e lucidamente folle. Qui troverete la nostra recensione, con tutti i dettagli biografici di Umberto, intanto vi proproniamo l'intervista rilasciata da Umberto a Indiestruttibili qualche giorno fa:

Ciao Umberto! Con il Santo Niente ci eravamo lasciati nel 2005; sappiamo bene che da allora tra un progetto e l’altro sei sempre stato in movimento. Dunque come mai abbiamo dovuto attendere otto anni per il nuovo disco? Il progetto era in stand-by? Volevi aspettare il momento giusto o semplicemente in questi 8 anni tra i tuoi vari impegni, Il Santo Niente non rappresentava una priorità?


Dovevo fare gli ultimi tre dischi nella sequenza in cui li ho fatti perché nella mia testa sono una specie di trilogia. Non ti so dire perché ma l’ordine non poteva che essere questo.

Qua e la ho letto che questo lavoro è nato circa un anno e mezzo fa, dopo che hai letteralmente cestinato altro materiale che, a tuo dire, era poco omogeneo per essere amalgamato in un disco. La domanda è: delle sei tracce del disco, qual è quella che ti ha fatto capire che dovevi andare in una direzione diversa rispetto al materiale partorito sino ad allora ? Qual’è il seme dal quale sboccia Mare Tranquillitatis?

Direi da “Primo Sangue”, una traccia che ho iniziato a comporre partendo dalla batteria elettronica. L’idea di base è stata eliminare la centralità della chitarra elettrica e portare avanti ritmica, elettronica, campionamenti e strumenti acustici.

Mare Tranquillitatis, ultimo lavoro del Santo Niente


Mare Tranquillitatis ritengo non sia un lavoro “facile”. Sia  musicalmente che a livello di testi, tutto è molto ricercato. La prima cosa che ho pensato ascoltandolo , è che questo non è un lavoro di quelli che nasce in sala prove. Ad esempio una traccia come “Sabato Simon Rodia” come nasce?

Nasce nel laptop di Tonino Bosco, bassista della band e compositore del pezzo, su Ableton Live. Io non ho usato Live nella preproduzione, ma solo nella fase finale, però il cd è nato nei nostri computer prima di arrivare in sala prove. Non usiamo midi dal vivo, ma i campionatori sono molto importanti.

Secondo me il termine che meglio inquadra il concept di Mare Tranquillitatis è “tormentato”. Sei d’accordo?

I personaggi sono tutti tormentati, ma il mio punto di vista è distaccato. Trovo che una delle cose peggiori e provinciali della tradizione italiana sia caricare di troppo pathos i testi e le interpretazioni. Deriva sicuramente dalla nostra tradizione operistica. Io lo trovo pacchiano e quindi cerco sempre di essere freddo e distaccato. Le emozioni stanno nelle azioni e non nei toni.

Questo disco secondo me rappresenta il punto di arrivo di un percorso artistico maturato negli ultimi quattro-cinque anni. Cercherò di essere più chiaro: secondo me i Santo Nada e il disco “Tuco”, hanno un’anima molto cinematografica. Nel tuo disco solista invece hai dato molto spazio alla forma canzone. In questo disco invece emerge una vena letterario-teatrale. Ti ritrovi in quest’affermazione?

Direi che è cinematografico anche se in modo diverso anche Mare Tranquillitatis. I testi possono anche essere piccole sceneggiature e le musiche la loro colonna sonora.

Seguendoti su Facebook ho notato che qualche giorno fa, dopo che hai postato una recensione negativa, è scoppiato un piccolo putiferio riguardo la traccia “Un certo tipo di problema”, e i suoi influssi a là Massimo Volume ecc ecc. Personalmente io credo che in quella traccia più che un influenza dei “tuoi” Massimo Volume , si respiri l’aria di un periodo, di una scena alternativa, quella del periodo d’oro bolognese, di cui certamente tu e i Massimo Volume siete stati alfieri. Vogliamo chiuderla così questa storia o vuoi aggiungere qualcos’altro?

Veramente il putiferio non era per questo motivo, ma creato ad arte per motivi meschini. Comunque la ritmica di “Un certo tipo di problema” l’ho presa da “I remember nothing” dei Joy Division. Tutto il pezzo è un omaggio più che palese e per di più dichiarato ai Joy Division, con le sue linee di basso alla Hook e tutto il resto. Se uno nella ritmica di quel pezzo sente i Massimo Volume forse è meglio che ascolti meno musica italiana. Sono sbalordito dallo chauvinismo degli ascoltatori italiani: la percentuale massima di musica italiana che riesco ad ascoltare non va oltre il 5% e davvero non credo che valga la pena di spenderci più tempo visto che di roba interessante ce n’è pochissima, mentre dal mondo arriva in continuazione musica fantastica. Tutti noi siamo scioccati dal fatto che nelle recensioni di Mare Tranquillitatis non si parli mai di gruppi stranieri ma solo di band italiane. Noi ascoltiamo musica straniera, non ci sentiamo parte di questa scena. Non ci piace il rock italiano, non lo ascoltiamo.

Parlando di Bologna, c’è una domanda che volevo farti, ma prima devo raccontarti un piccolo aneddoto: anni fa, un mio amico lasciò il nostro paesino in Puglia, diretto come molti a Bologna per iniziare il suo percorso universitario. Dopo circa due o tre mesi, quando lo rividi gli chiesi come trovasse Bologna. La sua risposta fu secca: “Beh, non è più quella di una volta!”. Questo comunque, più o meno, è il giudizio impietoso che mi da chiunque ci abiti. Se quindi Bologna per tutti non è più quella di una volta, per coglierne l’essenza vera dovremmo tornare indietro al 1088, anno di fondazione dello studium? Cos’era per te Bologna?

Un posto dove facevo la fame e che non rimpiango. Bologna è sempre una città bella e civile, ma non è più il centro creativo che è stato in diversi periodi della sua storia. Non può più esserlo e non c’è neanche bisogno che lo sia. Ora c’è internet e non c’è più bisogno di stare per forza fisicamente nel posto giusto per capire quello che sta succedendo, basta essere lucidi e critici. Andare in un posto come Bologna ora, convinti di trovarci chissà cosa, può anche avere l’effetto opposto di ottundere la lucidità e il senso critico. 

Dopo questa fase bolognese, come mai ad un certo punto della tua vita artistica, hai maturato la decisione di tornare in Abruzzo?

Non aveva più senso stare là, economicamente e praticamente. Oggi accendo il computer e leggo notizie di prima mano da tutto il mondo, tengo una corrispondenza quotidiana con gente sparpagliata per il pianeta, ho un home studio, pago un affitto ragionevole, sono lontano dalle corporazioni dell’indie italiano, faccio le mie cose nel mio territorio e vivo decisamente meglio che un tempo. E’ parlare bene l’inglese che mi tiene in contatto col mondo e con le novità, non lo stare a Bologna, che è solo un altro posto di provincia, migliore di tanti altri, ma pur sempre provincia.

Vedo che a Pescara non stai un secondo fermo, penso alla tua esperienza sia come dj che come direttore artistico del compianto Wake Up. Pescara è una piccola isola felice oppure più semplicemente una volta tornato là, ti sei rimboccato le maniche per necessità?

La seconda che hai detto.

Premetto che sono un grande estimatore del “Santo Nada”: ho ascoltato “Tuco” fino allo sfinimento su Bandcamp . Ti ho già scritto, a rischio di essere smentito, che per me è un disco molto cinematografico. A parte i riferimenti musicali come i Calexico, il tex-mex in generale e Morricone, volevo chiederti se le valli abruzzesi, dove sono stati girati parecchi Spaghetti Western, siano state per voi fonte d’ispirazione.

Certo che sì! Ha fatto molta impressione ai recensori americani che la band venisse da un posto a cinquanta chilometri dalla località in qui è stato girato il Django originale. “Tuco” è stato molto ben accolto negli States e continua a fare ascolti e download a distanza di cinque anni.

El Santo Nada: un autentico spin-off tex-mex del Santo Niente

Sempre in tema d’Abruzzo: negli ultimi anni, nella cosiddetta scena indie, molte band in quanto a riferimenti letterari sono abbastanza convenzionali: Majakowskj, Jean Paul Sartre e tanti altri mostri sacri, ma alla fine un po’ scontati. Tu spiazzi tutti e apri Mare Tranquillitatis con “Cristo nel Cemento”, ispirata all’opera "Christ in Concrete" di Pietro di Donato (scrittore americano, originario di Vasto) . Un caso, voglia di raccontare qualcosa di diverso o semplicemente puro “patriottismo”?

Andare sul famoso garantisce pubblico e trovo che in questa tendenza di artistico e culturale non ci sia niente. Molti veri attori con lo stesso repertorio fanno il vuoto ed è ovvio che sia una cosa ad uso e consumo dei fan. Una cosa che rimane molto al di sotto di una proposta culturale di vero rilievo. E poi hai visto i cachet di certi reading?

Penultima domanda: sei sempre stato molto critico riguardo certe dinamiche dell’indie nostrano. Seguendo la scena italiana ho notato band, sicuramente valide musicalmente ma non eccezionali. Eppure queste band, che avevano alle loro spalle agenzie di booking molto forti nel settore, sono riuscite ad arrivare alle orecchie di praticamente tutt’Italia, con un prodotto che alla fine non diceva nulla. Credi che in Italia, anche nell’underground la meritocrazia sia una chimera?

Le band che hanno successo sicuramente se lo meritano perché senza sacrificio comunque non si ottiene niente, ma l’appiattimento critico sui soliti noti è deprimente in tutti i sensi. Ci vuole ricambio, mentre è piuttosto ovvio che ci sono nomi blindati che possono anche fare dischi orrendi senza ricevere neanche una critica negativa. E non parlo di pop italiano ma di rock alternativo. Se non hai santi in paradiso è normale invece ricevere giudizi misti, grandi recensioni miste a stroncature ed è quello che fa la differenza.

 Ultimissima domanda: dal vivo con il Santo Niente giri qua e la, ma ora che è uscito il disco ci sarà un tour vero  e proprio?

Sì, certo, ma ovviamente non avremo la visibilità di una band di primo livello

lunedì 7 ottobre 2013

Le recensioni indiescutibili: Spiral 69 "Ghost In My Eyes"







Ci sono band che fuggono a gambe levate davanti a facili etichettature, ovvie similitudini e ingombranti paragoni. Poi ci sono band -a mio avviso la maggior parte- che non temono di incappare sotto la scure dell'assimilazione, ed anzi, fanno del proprio personalissimo albero genealogico musicale un vero e proprio manifesto ideologico-culturale. Ora, in entrambi i casi le conseguenze di queste scelte non sono mai del tutto scontate e i loro effetti sull'orecchio dell'ascoltatore, sono sempre imprevedibili: un eccesso di avanguardia può far gridare al miracolo, ma -spesso- porta il malcapitato di turno a grattarsi il capo per giorni, salvo poi buttare per sempre nel dimenticatoio opere che lasciano il tempo che trovano. Nel secondo caso, lavori di gruppi dichiaratamente "alla" possono fare imbufalire schiere di puristi di questa o quella band o corrente, lasciarti in una nichilista indifferenza, o al contrario dare nuova linfa al suddetto genere, regalandoti una rassicurante e accogliente aria di casa (CheVabenePureAvventurarsiPerCaritàMaCasaMiaRestaIlPostoPiùBelloDelMondo!).
Gli Spiral 69 a torto o ragione, nel bene e nel male, appartengono alla seconda categoria qui analizzata.
Fin dal proprio nome (ispirato ad un hard movie tedesco dei primi '80) questa band non lascia spazio ad equivoci: territori prediletti qui sono il goth, il dark, la new wave, l'elettronica industriale.
D'altronde il leader Riccardo Sabetti, già conosciuto per la sua esperienza con gli Argine, band dark wave di Napoli, nel mettere in piedi questa sua creatura giunta ormai alla terza fatica in studio, fa parte di quella schiera di musicisti che, come detto, non teme raffronto alcuno.
"Ghost in My Eyes", forte di una produzione da primissimo livello (Steven Hewitt ex batterista dei Placebo, e Paul Corkett ingegnere del suono con Radiohead e Nick Cave), scorre nel player preciso, pulito e coerente con la propria idea di musica. Va detto che l'eccessivo orgoglio dark-wave finisce alla lunga per pagare dazio con influenze mai troppo celate, che talvolta sfociano in vero e proprio enciclopedismo. Il disco, che si apre con un apocalittico trionfo di synth, nelle prime due traccie ricorda i primi Editors (la voce in "Waves", e specialmente "New Life").
"No Earth" è una struggente ballad, che se da un lato è musicalmente bella e profonda, dall'altro ti lascia un po con l'amaro in bocca per l'inflessione del cantato, va detto dalla pronuncia perfetta (aspetto, questo, decisivo per noi italiani, sempre poveri di pronuncia anglosassone), ma troppo marcatamente ispirato al miglior Morrisey.
"Fake Love" a mio avviso è la traccia più ispirata del disco in quanto, pur rimanendo nel solco del genere di provenienza, con un pianoforte minimale ma efficace, organetti caramellosi, linee di cantato più decise e personali, e un sound avvolgente, a spirale per l'appunto.
"Dirty" e "Please" spaziano dall'elettro-rock stampo Depeche Mode all'industrial più controllato tipico degli ultimi Nine InchNails.
La title track, finale del disco, rappresenta l'episodio più sofferto e malinconico di quest'opera, sorretta dal bel pianoforte di Licia Missori, un'eccellente partitura d'archi e dalle ispirate linee vocali di Riccardo Sabetti.
Dopo aver ascoltato "Ghost in My Eyes", la sensazione generale è quella di avere a che fare con una band dal sound internazionale che, con i suoi mood sicuri e ben definiti potrebbe aspirare alla definitiva esportazione del rock tricolore oltremanica.
Queste impressioni positive però devono tramutarsi, da parte del combo di Riccardo Sabetti, in maggiore ricerca di personalità, in quanto lo sfoggio -seppur con grande maestria- del proprio folto background musicale è si un ottimo biglietto da visita, ma alla lunga può sortire un pericoloso effetto boomerang.

domenica 6 ottobre 2013

INDIECAR(t)E: Uno sguardo a ... Sebastian Bieniek


"Non ascolto ciò che dicono i critici d’arte. Non conosco nessuno che ha bisogno di un critico per capire cos’è l’arte." 
J. M. Basquiat                                                                                                                                                                                                    
Chi dice che l’arte è per pochi? 
L’arte è per tutti coloro che sanno guardare. Ma non fissare, con sguardi spenti e bocche serrate. Ma per chi sa sorridere e vivere con gli occhi.

È questo ciò che ci proponiamo di fare con questa rubrica. Non insegnare l’arte, non obbligarvi ad essere finti intellettuali cui basta conoscere a memoria tutti i movimenti e gli artisti presenti fino ad oggi sul pianeta, o a cui basta partecipare ad un vernissage o ad una mostra di prestigio per essere intenditori. Ma cercare di farvi guardare. Guardare con sorriso la vita. 
L’artista di oggi è una persona che sa guardare con profondità ogni aspetto della vita, e quando decide di esprimerlo con le sue opere riesce però ad esprimerlo con semplicità, ma quella semplicità che recepisce chi, come lui, sa osservare.
Sto parlando di Sebastian Bieniek, artista tedesco nato in Polonia.

La sua arte è comunicativa, intelligente e spesso ironica, capace di spaziare da un campo all’altro mantenendo, però, la sua interessante visione sia come fotografo o pittore,  che come scrittore o cineasta, e, proprio perché deriva direttamente dallo sguardo, è un arte istintiva e spesso prodotta con una serie di elementi.


Aveva già destato in me interesse l’anno scorso, con la serie di dipinti “Homeland”. Una serie di dipinti, di dimensioni 80x60, strutturati come la copertina di un giornale.



Il soggetto è sempre una donna sfigurata, accompagnata da  due parti scritte, introdotte per rafforzare il concetto secondo il quale una rappresentazione forte può essere così pregna di significato da ricondurre ad altri tipi di riflessione: un titolo, che, messo in sequenza con quelli degli altri dipinti della serie, è parte di una frase: “Some time you win Some time you lose”, letteralmente “Certe volte puoi vincere Certe volte puoi perdere”; una didascalia, “What happen if we leave….”, letteralmente “Cosa accadrebbe se noi lasciamo…”.                                                                       
Ad ispirarlo, dice, è stata la copertina di un numero del Times che raffigurava una donna afgana con il naso tagliato. Un immagine così forte vorrebbe apparentemente rappresentare una richiesta di aiuto da parte di alcune donne in altre parti nel mondo, ma in realtà, messa sulla copertina di una rivista così importante, diventa anche messaggio politico (la presenza militare statunitense in Afghanistan), classista (la donna che non può ribellarsi) e conservatorio.
L’opera, a mio parere, si mostra nella rappresentazione così chiara e semplice, ma basta soffermarsi solo un attimo in più sui singoli volti e sulle singole scritte per far mettere in moto una sorta di meditazione sul tema che ha mosso l’artista ad interpretarlo.
Doublefaced no. 13
Oggi Sebastian fa parlare di sé con un’altra serie di lavori: “Doubledface”.
Ad un primo sguardo, anche di una sola foto di quelle che compongono l’opera, si potrebbe pensare: “Quindi? Ha disegnato una faccia su una….faccia!”. Ma io non ci trovo nulla di banale in questo. 
Doublefaced no. 10
Basta pensare a come nasce l’idea: un giorno suo figlio stava così male da non riuscire a fare nemmeno un sorriso. Per alleviare il dolore, Sebastian gli disegna, con un pennarello, una faccia sul volto. Così, per farlo divertire un po’. Osservando meglio ciò che aveva fatto ha evoluto la rappresentazione disegnando, con solamente un eyeliner e un rossetto, una doppia faccia sul viso della propria ragazza. Tale rappresentazione serve ad indagare sul concetto della dualità delle persone. 
Doublefaced no. 23
Lo stile è volutamente semplice, proprio per arrivare a chiunque. La sua, infatti, non è un arte da galleria. Le sue opere vengono subito pubblicate sulla sua pagina Facebook o sul suo sito www.sebastianbieiniek.com. L’intento è quello di far pensare a chiunque osservi i suoi lavori “io so fare anche di meglio”, proprio per creare un’iterazione tra spettatore ed artista. Il risultato? Qualcosa di così estremamente semplice che ricorda il modo di guardare il mondo proprio di un bambino, che spiazza, stupisce, fa riflettere e fa sorridere.


a cura di Liana Traversi




Doublefaced no. 4

Doublefaced no. 24
Doublefaced no. 5
 

mercoledì 2 ottobre 2013

Targhe Tenco 2013: ecco i nomi dei vincitori


  
Sono stati resi noti i nomi dei vincitori delle targhe Tenco 2013, a fronte dell'annuale manifestazione organizzata dal Club Tenco, associazione che si occupa della promozione
della nostra musica d'autore. Le premiazione avverrà nella suggestiva cornice del Teatro Petruzzelli di Bari, nell'ambito del Medimex-Salone dell'innovazione musicale, il prossimo 8 Dicembre. Ecco i nomi dei vincitori:

Miglior Album: Niccolò Fabi con "Ecco", che arriva davanti a "Fantasma" dei Baustelle, e ai quotatissimi "Sulla Strada" di Francesco de Gregori e "L'ultima Thule", l'album dell'addio alle
scene di Francesco Guccini.

Miglior disco esordiente: vince Appino con "Il Testamento", fortunatissimo esordio solista del
frontman degli Zen Circus, prodotto da Giulio Ragno Favero del Teatro degli Orrori

Andrea Appino
Mauro Ermanno Giovanardi


Categoria interpreti: qui si impone l'ex La Crus Mauro Ermanno Giovanardi con "Maledetto Colui che è Solo".


Infine la targa per il miglior disco dialettale va a Cesare Basile con il suo disco omonimo.
Cesare Basile