domenica 29 settembre 2013

INDIECAR(t)E: Alice Pasquini e l'arte contestuale


Classe 1980…stiamo parlando di Alice Pasquini, visual artist romana impegnata nel lavoro di illustratrice, scenografa e pittrice!

Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Roma, come ogni talento italiano, va via dall’Italia per po’ per cercare la sua strada.
Prima Madrid, dove ha frequentato la Scuola ARS Animaciòn e conseguito, nel 2004, il titolo di specialista in arte e critica d’Arte presso la Universidad Computense. Poi, con l’inizio della sua carriera negli anni 2000, ha vissuto, girato e lavorato in Francia, Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Russia, Marocco e Australia.

Nonostante il suo lavoro di illustratrice, le importanti collaborazioni con grandi griffe internazionali come Nike, Rizzoli, Range Rover, e gli ultimi lavori (al Campidoglio per gli uffici del sindaco e alla Casa dell'Architettura con le "Cave of tales"), la sua vera passione è la strada.
Alla normale tela predilige il muro, e alla tavolozza di colori sostituisce bombolette spray e stencil.          


Tutti voi vi sarete imbattuti, almeno una volta, in una sua opera caratterizzata dalla contrapposizione di colori caldi (quali l’arancione che è il colore, per riprendere una sua definizione, dei palazzi di Roma) e freddi (quali il verde o il blu) che si mescolano, dalle linee fluide e decise che spesso delineano volti e storie di donne.

Urban Painting ha pubblicato su facebook una classifica di gradimento degli street artist e, secondo questa, Alice sarebbe tra i primi dieci urban artist più amati al mondo insieme ad artisti come Blu, Sten&Lex, Bansky, JR, C215, Faith 47 e Swoon.

Abbiamo posto alcune domande ad Alice per conoscerla meglio e per capire la sua visione.

1) Prima domanda. La definirei “domanda di prassi”:
Perché Alicè e perché, soprattutto, la scelta di non celarsi dietro un nome d’arte ma di mettere a nudo la tua identità?

Ho deciso di firmare con il mio vero nome, allo stesso modo in cui ho deciso di dipingere durante il giorno o presentarmi a volto scoperto. Considero ciò che dipingo più vicino all’arte che al vandalismo e trovo stupida una società che spende tempo ed energia nella lotta ai graffiti. Mi prendo i miei rischi fa parte del gioco e della "rivoluzione".

2) I tuoi lavori mi hanno affascinato per la loro luce e per i loro colori (caratteristiche che dopotutto affascinano chi segue e osserva le tue opere).
Ma un’altra caratteristica sempre presente, che balza agli occhi, ma su cui non ci si sofferma mai abbastanza è la rappresentazione della donna.
La scelta di una costante rappresentazione femminile porta in se una componente autobiografica? Ogni donna che rappresenti racconta di te, di una parte di vita, o, più semplicemente, racconta una storia?

Parlare da un punto di vista personale mi porta inevitabilmente anche narrare da un punto di vista femminile. Come artista sono interessata a indagare i sentimenti umani esplorando attraverso le mie emozioni. Per questo c’è sempre una motivazione autobiografica inconscia aldilà della scelta di un determinato soggetto o di una storia da narrare. Purtroppo non sono mai in grado di comprendere il significato che ha per me stessa durante la realizzazione eppure ciò mi appare chiarissimo una volta trascorso del tempo.

3) La magia della “street art”, che tu hai amabilmente definito “arte contestuale”, è anche quella di scoprirla mentre si cammina, si va a lavoro o si esplora la città, e non quella di andare appositamente ad ammirarla (come avviene per un quadro in esposizione, per intenderci).
Consapevole di questo, come reagisci quando realizzano degli eventi, come quello del 9 dicembre 2012, “Incontro con Alice Pasquini. Metropolitan art crumbs.”, che assumono la forma di una “gita” alla scoperta dei tuoi lavori?


Sì, penso che l’ “effetto sorpresa” sia parte della bellezza di questa forma di espressione ma purtroppo o per fortuna l’interesse da parte del "pubblico" è oramai cresciuto da qualche tempo. Cosi finché non c’è scopo di lucro io non ho nulla in contrario a incontri del genere, anzi trovo molto divertente l’idea che un gruppo di persone di differenti età e culture che non si sono mai viste prima si ritrovi una fredda mattina a Roma per andarsene a zonzo, come in gita appunto, socializzando fra loro mentre percorrono la loro città in un modo diverso.

4) Hai vissuto in molti posti, tra cui Spagna, Gran Bretagna, Francia, e visitato ed operato in molti altri, quali Germania e Australia. Questo è dovuto ad una tua voglia di evasione e cambiamento, o a una semplice voglia di conoscere? Ed ora che, per motivi lavorativi, stai trascorrendo più tempo nella tua città d’origine, Roma, come la vivi?

Roma è la città dove sono nata e cresciuta e che inevitabilmente amo e odio. Fin da bambina ho viaggiato moltissimo e il mio temperamento irrequieto e la mia necessità di fuga mi hanno portato presto fuori dall’Italia. Adesso sto provando a cambiare, dopo anni di nomadismo ho finalmente deciso di avere una base, che per me vuol dire uno studio.     
In realtà continuo a viaggiare moltissimo e a Roma non ci sto spesso ma sto imparando: un conto è fare un viaggio e avere un posto in cui tornare, un altro darsi alla fuga e lasciarsi tutto dietro.

5) L’arte contestuale. Non sono interessata a chiederti perché l’hai scelta, ma se, dopo le importanti collaborazioni e i progetti sempre più ambiziosi (tra cui mi sento di citare la “Cave of Tales” alla Casa Dell’Architettura e la tua chiamata ai Musei Capitolini), hai mai pensato di accantonarla per dare spazio a un arte più da “studio”, quella in cui l’artista è da solo con il colore e la tela e non è più, quindi, al contatto con un arte “pubblica”.

Per me è stato l’inverso. Vengo proprio da una formazione classica, ho studiato all’accademia di belle arti e sono poi sfuggita a quel tipo di vita di artista. La strada mi ha presto affascinato per le sue caratteristiche democratiche e non commerciali. Certo le cose stanno cambiando ed è facile osservare come ogni volta che si crea un’avanguardia artistica, il mercato dell’arte prova a confezionare un pacchetto adatto alla vendita ma questa è una vecchia storia. Per quanto riguarda le istituzioni, sono contenta di osservare come finalmente si comincino a svegliare e a capire l’importanza del fenomeno. Certo anche su questo tema ci sarebbe molto da dire, ovviamente le contraddizioni sono evidenti. Guarda me, un giorno dipingo ai musei capitoli per il sindaco e il giorno dopo potrei essere multata da un vigile mentre faccio un’azione in strada.

6) Hai detto, in una vecchia intervista, che l’artista non è un comunicatore. L’artista ha un proprio messaggio ma il pubblico può recepirlo in maniera del tutto personale.
Ma c’è almeno una componente nelle tue opere che vuoi far arrivare in maniera “oggettiva” più che soggettiva? Un messaggio universale presente nel tuo lavoro che vorresti che tutti percepiscano alla stessa maniera?

Certamente, come ti dicevo prima le motivazioni emotive arrivo a comprenderle in un secondo momento ma quando affronto un nuovo progetto parto sempre da un concetto sul quale mi documento a lungo, leggo tutto ciò che trovo d’interessante sull’argomento, cerco immagini, libri, film, canzoni poi provo a interiorizzare tutto quello che ho scoperto e provo a dimenticarlo poco prima di mettermi a creare per mettere in moto i meccanismi dell‘inconscio.

7) Mi affascina molto il tema dell’ “arte per il sociale”, ossia quando la street art viene chiamata a rivalutare uno spazio (come è, ad esempio, il muro da te dipinto a Via dei Sabelli a Roma, nel quartiere San Lorenzo). Mi spiace solo che spesso questo tema non viene affrontato come dovrebbe, viene preso spesso “sotto gamba”, ignorando che oltre ad essere, di per sé, un’iniziativa interessante, è anche low cost!!
Quindi, in chiusura, noi di Indiestruttibili siamo curiosi di sapere se prossimamente lavorerai a qualcosa del genere, e se vuoi spendere due parole a riguardo del tema! Un appello magari, affinchè soluzioni di questo genere possano essere prese più spesso in considerazione. 

Le cose non funzionano come dovrebbero, ma per fortuna esistono molte persone disposte a mettersi in gioco. Personalmente è capitato di lavorare in forma gratuita a progetti sociali in cui credevo. Prossimamente tornerò al Metropoliz una ex fabbrica abbandonata e riportata a nuova vita dove qualche tempo fa avevo realizzato una ludoteca per i molti bambini delle differenti comunità che ora abitano lo spazio.



a cura di Liana Traversi


venerdì 27 settembre 2013

Le recensioni indiescutibili: Santo Niente "Mare Tranquillitatis"



Umberto Palazzo è una figura fondamentale nell'italico panorama: da trenta e passa anni sulla scena, fondatore dei Massimo Volume, con i quali entrò in rotta di collisione poco prima della registrazione dell'esordio "Stanze". Subito dopo fonda il Santo Niente, con i quali scriverà pagine indelebili per l'indie rock nostrano: "La vita è facile" e "'Sei 'Na Ru Mo'No Wa Na'i" andrebbero inseriti in ogni buon prontuario per l'aspirante rocker italico, alla voce "ascolti fondamentali".
Dopo quella indimenticabile stagione bolognese, riabbraccia le sue radici, stabilendosi in pianta stabile a Pescara. Da li inizia la fase due della carriera di Palazzo: dj di professione e organizzatore di concerti in qualità di direttore artistico dell'ormai defunto Wake Up, tra i più rinomati club della penisola. Questo spaccato biografico è necessario per comprendere l'evoluzione artistica di Palazzo: nella sua fase pescarese infatti, possiamo ben dire che ha dato il meglio di se.
Pubblica con il nuovo combo de Il Santo Niente "Il Fiore dell'Agave" nel 2005, da molti salutato come il capolavoro dell'ormai band pescarese. Non pago di tutto ciò, nel 2010 da vita a El Santo Nada, un autentico spin-off della band, in chiave spaghetti-tex-mex-morriconiana con il quale pubblica "Tuco". Successivamente arriva alla pubblicazione del primo lavoro solista, "Canzoni della notte e della controra", in bilico tra canzone d'autore e popular music. Se "Tuco" è un lavoro cinematografico, e il disco solista di Palazzo da più spazio alla forma canzone, l'ultimo lavoro del Santo Niente (come chiusura di un ideale trilogia artistica) acquisisce una fisionomia più letterario-teatrale.

Umberto Palazzo e Il Santo Niente


"Mare Tranquillitatis" è un grandissimo disco, ma di non facile assimilazione. Un lavoro cupo, tenebroso, tormentato nelle liriche. Un disco che va ascoltato e riascoltato, con impegno e dedizione. L'iniziale "Cristo nel Cemento" la potremmo definire apocalittica: il minimale giro di basso di Tonino Bosco fa da prologo ad una disperata deflagrazione strumentale, che successivamente si trasforma in un mantra per batteria e basso sopra il quale Palazzo scandisce con forza il testo (ispirato all'opera "Christ in Concrete" di Pietro di Donato, scrittore americano originario di Vasto).
La successiva "Le ragazze italiane", è una specie di marcia garage rinforzata dallo psicopatico sax elettronico di Sergio Pomante nella quale balza all'occhio la pungente ironia del testo (peraltro l'unico pezzo "cantato"), critico nei confronti di un permeato moralismo perbenista, tipico dello stivale. Tra le sei tracce del disco è sicuramente la più accessibile, da un punto di vista strettamente musicale, ma forse la meno ispirata se si guarda l'intero disco nel complesso.
"Un certo tipo di problema", con il suo protagonista, ostaggio involontario di un losco cocainomane e di una notte infinita, odora di indie-rock bolognese, di quella scena che il Santo Niente e i Massimo Volume hanno contribuito ad elevare allo status di culto. Si è molto dibattuto sulla paternità musicale di questa traccia: Massimo Volume o no? A mio avviso, più che di un influenza si tratta di un vero e proprio lascito culturale, figlio di una controcultura, di una città e di un periodo che rimarrà impresso come un tatuaggio, per tutti coloro che ne fecero parte.
"Maria Callas" è il capolavoro del disco: il malinconico ricordo di una diva transgender ferita nel cuore da un "piccolo uomo meschino" musicalmente ci riconduce verso i lidi di "Canzoni della notte e della controra".
"Primo sangue" è la traccia più cinematografica del disco. Storia della notte brava di un neo patentato, sostenuta da un claustrofobico beat per cassa dritta, un ipnotica chitarra acustica e un kaossilator impazzito: qui la musica è un mezzo, un pretesto per raccontare una distorta favola acida.
 La successiva e conclusiva "Sabato Simon Rodia" ci porta dalla galleria di un cinema al loggione di un teatro; questa traccia suona come la perfetta colonna sonora di un ideale pièce teatrale, incentrata sulla figura del bizzarro immigrato avellinese che costruì le Watts Towers a Los Angeles. La scelta non sembra un caso: Pietro di Donato e Simon Rodia, emigranti italiani, entrambi in qualche modo legati alla megalomane edilizia americana, certamente due visionari, quasi due "cervelli in fuga" che qui diventano i simboli,  prologo ed epilogo di un opera di profonda importanza per il rock italiano.